“Reperti”: sin dal titolo, Gaetana Milazzo sottolinea quella che sembra essere la sua missione d’ artista, ovvero offrirsi come un’archeologa della modernità, che compie un lavoro di ricerca, ritrovamento, catalogazione e selezione di immagini, quindi vi appone il filtro del suo sentire per dire qualcosa che alla fine riguarda tutti noi, il nostro modo di comunicare, di trasmettere il sapere e le informazioni, il nostro rapporto con la memoria e con l’arte come affermazione della nostra identità. “Reperti” prosegue idealmente e completa la riflessione già intrapresa dall’artista nel suo precedente lavoro “Identità di scarto”.
Qui sono le foto scattate dall’artista ad alcune statue del Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova a dare l’avvio ad una nuova operazione di ‘ritrovamento’. Non si tratta di un imbattersi casuale: reperire in latino vuol dire infatti “ritrovare”, ma presuppone un’attività di ricerca precedente. Prima dell’attività di ritrovamento c’è il quaesitum, l’attività di chi va in cerca, di chi si pone e pone domande: è qui evidente la matrice concettuale-esistenziale del lavoro dell’artista, che va oltre la suggestione e l’emozione emotiva ed estetica provata di fronte alle sculture monumentali del Cimitero di Staglieno.
Consapevole che esse sono il segno tangibile della volontà dei cittadini genovesi del passato di lasciare una traccia di sé post-mortem, si ritrova a riflettere sulla necessità di una tutela di questi ‘beni’ collettivi e si domanda quali sono, se ci sono, nell’uomo contemporaneo, equivalenti strategie per rispondere al “bisogno di esistere e sopravvivere nel tempo”. Come si pone l’uomo contemporaneo di fronte alla necessità di lasciare una memoria, una traccia di sé? Necessità che, seppure più frequentemente soddisfatta da appartenenti alle classi abbienti, in passato trovava un riscontro anche nelle fasce popolari: ne è testimonianza la statua di Caterina Campodonico, la famosa ‘venditrice di noccioline’ che decise di investire i faticati risparmi commissionando la statua in cui è ritratta con i suoi dolci e le sue collane di nocciole e garantirsi così un pezzo di marmorea immortalità.
Per l’uomo contemporaneo sembrano esserci bisogni più impellenti di lasciare una traccia ‘reale’ di sé dopo la morte, presi come siamo dall’ “ossessiva rappresentazione di noi stessi” sui canali dell’etere digitale e dallo scambio rapidissimo e continuo di informazioni. Attraverso la rete abbiamo la possibilità di affermare e costruire quotidianamente la nostra presenza e accedere a una quantità di ‘risposte rapide’, quick responses come quelli forniti dai Q.R. Code, che concettualmente rappresentano il contrario del repertum inteso come ritrovamento a cui si può accedere solo dopo una lunga ricerca e presupponendo una capacità di porre e porsi le domande giuste. In “Reperti”, il Q.R. Code non permette di disporre di maggiori informazioni, ma richiede al visitatore di porsi ulteriori domande e attivare un processo critico.
Come a mettere in guardia nei confronti delle risposte che possiamo ottenere troppo velocemente, come a dire che non tutte le domande, tanto meno quelle che hanno a che fare con l’esperienza e la fruizione di un lavoro artistico, possono essere soddisfatte da un accesso semplificato alle informazioni. Informazioni che peraltro nascono già aleatorie, perché l’accesso a questo tipo di dati ha in genere un limite temporale. Altro quaesitum, dunque, che ci pone e si pone l’artista: dove finiranno tutte le informazioni digitali? L’artista solleva il problema della conservazione dei dati nella realtà virtuale, perché ancora non esiste, e forse non potrà esistere mai, un valido sistema di catalogazione e archiviazione in merito.
Domanda riguardante anche le informazioni contenute nei nostri profili, ovvero le nostre vite virtuali, le nostre identità digitali, che al momento rappresentano probabilmente la risposta più concreta all’innato bisogno di lasciare delle tracce di noi stessi. “Mi chiedo quale sia il limite fra la realtà e il mondo digitale che non esita a spiegarla e a semplificarla in una successione di informazioni”, si domanda l’artista. Forse l’uomo contemporaneo non può che costruire dei monumenti-non monumenti, cangianti come le nostre vite ed identità, reali o virtuali che siano.
Il linguaggio digitale è in questo senso espressione e simulacro della modernità: la nostra fame di esserci non si concretizza nel marmo ma nella costruzione delle nostre identità sul web, nel loro intersecarsi costruendo un ritratto collettivo mutante, uno strano archivio in fieri delle nostre esistenze.
Ma cosa resterà di tutto ciò? Questo sembrano chiedersi e chiederci i volti assorti delle sculture, anzi delle “creature” del Cimitero di Staglieno, vivificate dai veli colorati, dalle sovrapposizioni digitali che rappresentano quasi una firma dell’artista e ci indicano che sta mettendo se stessa dentro i ritratti marmorei segnati dalla patina della tempo e della mancata tutela – altro sintomo di una modernità che, proiettata verso un eterno presente, fatica a tenere nel dovuto conto l’importanza della memoria e della conservazione di un passato ‘vivente’ dall’incommensurabile valore artistico e storico – . Ciò che l’artista chiede al visitatore, non è un puro esercizio di pensiero, ma è la partecipazione ad un’esperienza prima di tutto sensoriale.
Ecco allora che i veri ‘reperti’, gli oggetti da ri-trovare e prima di tutto da cercare siamo come sempre noi stessi: l’importanza della memoria nel lavoro di Gaetana Milazzo non è un nostalgico guardare indietro, è il compimento di un esercizio di consapevolezza e analisi critica che si interroga sulla responsabilità del nostro Esserci nel mondo e nel tempo.
Dott.ssa Cristina Nicoletta
novembre 13, 2013
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